Riccardo Svelto presenta a Giovane Fotografia Italiana #09 La Cattedrale, un progetto sul significato profondo di vista e memoria

© Riccardo Svelto
© Riccardo Svelto

Ciao Riccardo, ci diresti in che misura il tuo progetto e la tua professione si relazionano al tema della mostra “Possibile”?

Il mio è un progetto che cerca di raccontare la paura di perdere la vista. Nel 2020, subito dopo il primo lockdown, ho fatto visita a casa dei miei nonni e in quell’occasione ho trovato una cartella clinica con alcune angiografie di mio nonno risalenti al 1999 e che ne dichiaravano la perdita della vista dell’occhio destro a causa di una trombosi. Dopo averle trovate, non riuscivo a non pensare ‘e se succedesse a me?’ Mio nonno è una figura molto importante per me, era un fotografo amatoriale ed è stata la mia prima connessione con la fotografia. Sono cresciuto sfogliando i suoi album di famiglia e, da fotografo, il pensiero di poter perdere la vista mi ha molto scosso.

La vista viene data quasi per scontata, specialmente al giorno d’oggi. Ma se ci fermiamo a pensare di poterla perdere le cose cambiano. La presa di coscienza che perdere la vista è Possibile è stata proprio la scintilla che mi ha spinto ad iniziare questo lavoro.

E poi penso che Possibile sia la parola che meglio descrive la libertà dell’atto creativo. Credo che possibilità e libertà, insieme alla curiosità, siano i tre ingredienti fondamentali per la ricerca personale in ogni ambito artistico.

Cosa accomuna La Cattedrale ad altri tuoi lavori precedenti o in corso d’opera?

Ciò che cerco di fare con il mio lavoro, e ciò che penso sia il potere dell’arte in generale, è sempre stato quello di provare a tradurre delle dinamiche personali cercando di trattarle in maniera universale.

Solitamente cerco di affrontare grandi tematiche, come l’adolescenza o la solitudine per esempio, perché più che la ricerca di novità, mi interessano i meccanismi emotivi e sociali che da sempre ci caratterizzano e ci accomunano. Citando Thoreau; “Le scoperte fatte lontani da casa sono specifiche e particolari; quelle che facciamo a casa sono generali e significative. Più si va lontano, più si è vicini alla superficie. Più si è vicini a casa, più si va in profondità”.

In questo La Cattedrale prova a toccare una paura universale, non solo personale, che tutti possiamo avere, anche se a livello progettuale è stato un lavoro molto diverso rispetto agli altri. La perdita della vista, come tutte le perdite, è legata alla memoria: se perdi qualcuno o qualcosa, quello che ti rimane è il suo ricordo, così come se non puoi più vedere, quello che rimane è quello che hai visto finora. Perciò era importante per me scavare nel mio archivio e usare foto già scattate in passato. Si tratta di situazioni viste, vissute, prima ancora di essere fotografie, un archivio di memoria visiva che grazie al progetto diventa una sequenza emotiva.

La difficoltà principale è stata non avere un punto di riferimento preciso, mi sono ritrovato davanti a foto di vari periodi che seguivano temi molto diversi tra loro; la differenza con gli altri miei lavori è stata proprio questa: solitamente inizio a scattare partendo da un’idea o un concetto mentre questa volta avevo già tra le mani il grosso del materiale. Ho dovuto quindi riguardarlo con occhi diversi, decontestualizzando e privando le singole immagini del loro significato originale, dandogliene uno nuovo con l’unico obiettivo di creare un immaginario in linea con il progetto.

Il tuo progetto è anche un fotolibro, una modalità di esposizione compatibile ma diversa da quella della mostra, quali valori apporta a La Cattedrale?

La Cattedrale è un progetto nato proprio come libro durante la prima edizione di Folio – PhMuseum International Online Photobook Mastercalss insieme all’editore indipendente Witty Books.

Mi piace pensare che un libro fotografico sia un libro a tutti gli effetti, non solo un catalogo di immagini. È una narrazione e può raccontare una storia, delle sensazioni e prova a farlo con le immagini invece che con le parole. Dovendo sfogliare le pagine il lettore è obbligato a seguire una successione precisa. Le immagini così diventano parole che, messe nel giusto ordine, possono creare un discorso. Così due foto affiancate comunicano, si rafforzano o diventano una nuova immagine, le pagine bianche diventano delle pause e la sequenza diventa più importante delle foto stesse.


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